Orrore, crisi e riscatto di una città nel progresso e nella bellezza

*di Franco Cimino

Diciamolo subito, non sono stati atti vandalici soltanto le distruzioni provocati l’altra notte negli edifici delle due scuole, l’Aldisio e la Patari-Rodari, della nostra Città.

Un qualcosa di leggermente delittuoso, cioè, che starebbe tra la bravata “giovanilistica” e la stupidità, ovvero un’altra qualcosa che scompostamente si muova tra l’ubriachezza e la follia, l’insana allegria e l’eccesso di forza. Diciamo, pertanto, che non può essere soltanto un affare di polizia, di quelli che possano essere trattati con il codice in mano e le investigazioni difficili a causa dell’assenza di telecamere in quelle scuole, come in quasi tutte quelle del territorio.

Chiunque sia stato bisogna tracciarne il profilo e la situazione che l’ha prodotto. Ovvero, la dinamica del contesto, come usa dire in ambiti più strettamente sociologici. I “ bravi” della considerevole bravata, sono catanzaresi, intesi anche come chi vive o vi sosta in Città, che non amano Catanzaro, ignorano la bellezza, odiano la cultura, non sentono per nulla il senso delle cose, anche attraverso il quale si avverte il senso della vita. Ché anche in ciò che è inanimato c’è vita, anche oltre quelle presenti nella Natura.

I banchi, le sedie, i computer, le pareti le porte e le finestre, sono opera dell’uomo, quindi sono vita, la vita di chi ha lavorato per realizzarli. E la vita di chi, amministrando, ha deciso che andassero lì. Sono ambiti e strumenti usati dai nostri ragazzi, in questo caso i bambini, attraverso i quali crescono, anche nel corpo oltre che nella mente, nei sentimenti e nei saperi.

Sono, pertanto, la vita che in essa i nostri figli e i loro maestri vi trasmettono. Dei quaderni e dei libri, distrutti, dentro questo spirito neppure parlo, di questo orrore dicono già chiaramente le immagini di quei fogli strappati, sporcati, gettati per terra.

Della distruzione del cartellone realizzato dai bambini disabili, che l’hanno firmato con l’impronta delle loro manine, dico qui, in mancanza di parole adeguate, tutta la mia rabbia. Una rabbia che vorrebbe, quasi me ne vergogno e perciò immediatamente l’annullo, io mi trovassi lì, in quella notte e in quel posto, per fronteggiarli con le mie pur indebolite forze fisiche.

Magari, non per prenderli a botte, ma per mettere il mio petto contro la loro cattiveria, le mie mani a paramento protettivo di quel cartellone. Questi “ bravi” sono dominati dall’ignoranza piena.

Quella che non si racchiude dentro i libri chiusi ai loro occhi e a quei quaderni su cui non hanno fatto scorrere le loro penne, ovvero, che ermeticamente resta chiusa dentro quelle scatolette che li fanno viaggiare alla ricerca nell’etere di quella cultura della forza fisica che ne esalti l’ambizione di primeggiare sui deboli e di imporsi con la violenza sui diversi e i disarmati, i buoni di cuore e i naviganti nella ragione, il mare infinito e pulito. L’ignoranza di questi delinquenti è fatta, invece, di occhi serrati sulla realtà.

***

Chiusi come sono all’interno del loro buio, essi non vedono il sole, né quando nasce né quando tramonta, non sentono il vento sul viso, non guardano il mare e non si commuovono quando la luna lo colora d’oro e d’argento. Probabilmente vogliono più soldi nelle tasche ma non hanno mai guardato in faccia la povertà, i poveri veri non li hanno incontrati.

Non amano i luoghi in cui vivono perché non li conoscono fermi come sono stati nel perimetro del loro habitat e dei loro stretti rapporti amicali, che molto avranno di cameratismo e assai poco dell’amicizia. Questo il loro profilo, tanto che non sarebbe stato difficile, prima di ogni loro cattivo agire, individuarli e fermarli. Prima, molto prima del loro manifestarsi con quel carico di odio e indifferenza, che stiamo conoscendo.

Nelle famiglie, nella scuola, nelle vie, negli spiazzi dei loro bar, sempre poco distanti da quegli altri “ anfratti urbani” che non sono più neppure le vecchie periferie di cui ha memoria la vasta letteratura del degrado e dell’abbandono. In tutti questi luoghi si sarebbero potuti incontrare.

In tempo utile per correggerli, farli crescere in maturità e bontà, in responsabilità. E per educarli al rispetto del bene comune, dentro il quale si trova, quasi sempre indifesa, la cosa pubblica. Ma questo orribile fatto non si sarebbe consumato, unitamente ai tanti anche di diversa fattura, se in Città non si fosse indebolita la coscienza sociale, il senso della comune appartenenza e quello della identità catanzarese da sempre radicato nell’antica cultura della solidarietà, dell’amicizia, dell’accoglienza.

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E, soprattutto, della cura delle istituzioni, a salvaguardie delle quali, come presidi militari, stanno le scuole e le università, le organizzazioni sociali e sindacali, il mondo della Chiesa e della cultura. Vi sta, la Politica, con tutte le sue ramificazioni, ivi comprese le classi dirigenti. La mancata, giusta, adeguata, necessaria, reazione collettiva, diciamo sociale e politica, anche rispetto ai fatti odierni, conferma che il contesto abbia finora favorito tutti quei gesti di degradazione del senso civico e morale.

Comportamenti delinquenziali che, se non arrestati in tempo, accresceranno la pesantezza della crisi in cui Catanzaro si trova. È evidente, pertanto, che la nuova Città, quella bella che ritrovi la sua Bellezza, la Città che intendiamo costruire in occasione del suo tempo storico ravvicinato, dovrà partire dal recupero di questa cultura e di quel senso della Vita che è andato smarrito.

Il primo atto da compiere, nel ricostruito sentirsi unica comunità in un territorio unificato, consiste nella lotta ad ogni forma di degrado e di ignoranza, per la cancellazione di ogni ambito nel quale la bruttura fisica si fa aiutare dal buio fisico, inteso anche come mancanza di illuminazione degli spazi.

Una alleanza malefica, questa, per rendere davvero invivibili e irraggiungibili quelle parti di Città abbandonate. Catanzaro, però, è ancora viva, tanta gente in essa vuol riprendere a

vivere pienamente la Città. Non possiamo deluderla. Paradossalmente, affermo che non c’è più molto tempo. Ma quel poco che rimane, è il suo tempo.

Quello della rinascita. Della liberazione. Del Progresso. Della Bellezza. Della Vita.

Franco Cimino

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